L’art. 3, comma 1, della nostra Costituzione sancisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; il citato principio di eguaglianza formale trova specificazione nel secondo comma dello stesso articolo, in cui si prevede che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il Costituente ha, pertanto, riconosciuto che non è sufficiente sancire l’eguaglianza formale dei cittadini (art. 3/1 Cost), quando esistono ostacoli di ordine economico e sociale che limitano, in concreto, la libertà e l’eguaglianza degli stessi, impedendo, quindi, che siano effettive; ha, pertanto, assegnato alla Repubblica, ossia al Legislatore ed a tutti i Pubblici Poteri, il compito di rimuovere i predetti ostacoli, affinché tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità, gli stessi diritti, loro formalmente riconosciuti dalla Costituzione ( T. Martines, Dir. Cost. ed. Giuffrè, 2017).
Che senso ha riconoscere, ad esempio, il diritto al lavoro, a fronte di un’ elevata percentuale di disoccupazione, così come pure il diritto alla salute, a fronte dell’organizzazione sanitaria del nostro Paese, afflitta da tante problematiche.
Il principio di eguaglianza sostanziale ha, quindi, carattere programmatico (T. Martines, op. citata), rivolgendosi al Legislatore nonché agli altri Pubblici Poteri, affinchè pongano in essere tutte le misure idonee al fine di conseguire la eguaglianza sostanziale.
Ritengo, in sintonia con il citato carattere programmatico nonché con Autorevoli Studiosi ( Q. Camerlengo, Cost. e Prom. Soc. ed. Il Mulino, 2013), che la società, così come delineata dal Costituente, non esiste nella stessa Costituzione in quanto, quest’ultima, prevede solo il disegno di una società che sarà il risultato di un processo di trasformazione, operato dalle forze politiche, sociali, economiche e culturali del Paese impegnate, con la loro azione, a rimuovere gli ostacoli di cui parla il secondo comma dell’art. 3.
La Costituzione, ed il diritto positivo in generale, non possono determinare, così come accennato, il mutamento sociale, ma solo indirizzarne lo sviluppo, arrestandosi in corrispondenza di una linea di confine, oltre la quale operano le predette dinamiche.
Essenziale, a questo punto del discorso, si configura chiarire il concetto di partecipazione sociale e di mobilità sociale.
Una democrazia pluralista, come la nostra, basata sul principio dell’eguaglianza sostanziale, non può tollerare l’immobilità sociale, intesa quale non partecipazione alla vita del Paese.
Una società immobile, ovvero scarsamente mobilizzata, è una società che, dal punto di vista costituzionale, non è in grado di attuare i princìpi fondamentali connessi all’affermazione della persona umana, come soggetto in grado di concorrere, con la propria condotta, al progresso della comunità (Q. Camerlengo, op. cit).
La democrazia vive di pluralismo, di svolgimento della persona umana; in altri termini, attraverso la mobilità sociale si attua quella partecipazione sociale, di cui si nutre la democrazia pluralista, fondata sul canone dell’eguaglianza in senso sostanziale.
E’ necessario, quindi, così come già riportato in un mio precedente articolo (esame degli artt. 18/49 Cost), che vi sia, nei cittadini, la volontà di partecipare attivamente alla vita politica e sociale del Paese.
By Giovanni Del Pretaro